La storia del balon

Si parte all’epoca dei Romani, ai loro giochi (il ludus pilae cum palma o la pila palmarum) “sopravvissuti” per molti secoli, quando si giocava sotto i bastioni delle città utilizzando un “bracciale” di legno. Città italiane ospitano ancora i fasti del glorioso passato di questo sport: famosa per esempio è l’Arena Sferisterio di Macerata. Siamo tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento: il pallone con il bracciale era di casa nelle corti principesche italiane. Un “nobile esercizio e convenientissimo ad uom di corte”, tanto che divenne ispirazione per quadri ed affreschi: la prima testimonianza si può trovare nella “Sala dei giochi” del Castello di Ferrara, opera voluta dal duca Alfonso II d’Este. Ed alla corte sabauda? Il “padre” può essere considerato Emanuele Filiberto: fu più legato all’Europa che all’Italia; nel suo periodo di vita trascorso al seguito di Carlo V e Filippo II, conobbe le realtà cortigiane di Germania, Fiandre e Spagna. Era sicuramente appassionato di pallone, ma non del bracciale come i suoi “colleghi” italiani: ci sono testimonianze che lo vedono impegnato in sfide con Alvarez del Toledo, duca d’Alba o con lo stesso Carlo V, appassionato di “balletta”. Quando tornò nei suoi Stati, e siamo a metà del Cinquecento, Emanuele Filiberto continuò a giocare: non si sa bene quale specialità, ma, vista la sua attitudine, si può pensare che preferisse la pelota spagnola al bracciale italiano. Resta il fatto che a fine Cinquecento il pallone era diffuso in tutto il Piemonte: a Torino e nelle città di provincia (Venaria, Casale, Mondovì e Cuneo) furono aperti numerosi “trincotti”, veri campi da gioco al coperto che ricordano i “trincot” francesi per lo “jeu de paume” (genitore anche del tennis) ed i “trinquete” spagnoli per la pelota. Era una vera passione anche per il popolo, che lo giocava nella strade con il bracciale. Tutto questo scatenò dibattiti all’interno della Chiesa che si domandò “quali giochi di palla fossero leciti o meno ai bravi cristiani”. Di fatto nelle piazze si continuò a giocare: impossibile fermare un gioco che lo stesso duca Carlo Emanuele II giocava quotidianamente. Tra il Seicento ed il Settecento ci fu un cambio: il gioco fu visto come necessario per lo sviluppo fisico dei giovani. Anche le autorità ecclesiastiche cambiarono il loro atteggiamento, sebbene qualcuno, come il vescovo di Mondovì, monsignor Casati, continuò a rimanere ferocemente avverso ai giochi. Restarono i problemi degli spazi: anche l’Accademia Reale ritagliò uno spazio al suo interno per il gioco della palla, ma era la strada, la piazza il luogo principe per il gioco. Non senza problemi: a Mondovì i commercianti della contrada di Sant’Agostino chiesero l’intervento del governatore per fermare il gioco del pallone perché “i colpi sgraziati” colpiscono ed atterrano i passanti, costringono a chiudere le botteghe e se i palloni entrano dalle finestre nelle case vengono pretesi a gran voce. Nello stesso periodo a Fossano sono invece i giocatori a far sentire la loro voce per evitare che venga costruito un balcone sulla strada a fianco del Duomo,

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